Di Flavia De Michetti Roma, 11 maggio 2023 (Quotidianoweb.it) - Il watchdog per la libertà di stampa ha affermato di aver trovato “Uno schema delle uccisioni dei giornalisti da parte dell'Esercito israeliano” nel suo rapporto, intitolato “Deadly Pattern”, pubblicato proprio ieri e ha aggiunto che “Nessuno è mai stato accusato o ritenuto responsabile per queste morti, minando gravemente la libertà di stampa”.
Il CPJ ha diffuso alcuni dati, secondo i quali i Palestinesi costituiscono l'80% dei giornalisti e degli operatori dei media uccisi dall'Esercito israeliano.
Infatti, nel rapporto viene riportato che “Queste cifre riflettono in parte le tendenze più ampie del conflitto israelo-palestinese. Negli ultimi 15 anni, secondo i dati delle Nazioni Unite, sono stati uccisi 21 volte più Palestinesi che Israeliani”.
Il testo ha anche evidenziato che "I funzionari israeliani sminuiscono le prove e le affermazioni dei testimoni, che spesso sembrano scagionare i soldati per le uccisioni, mentre le indagini sono ancora in corso. Inoltre, le indagini dell'Esercito israeliano sulle uccisioni sono una scatola nera, contenete risultati tenuti segreti”.
Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti ha, dunque, specificato che “Quando hanno luogo le indagini, l'Esercito israeliano spesso impiega mesi o anni per indagare sugli omicidi e le famiglie dei giornalisti, per lo più palestinesi, hanno poche risorse all'interno di Israele per perseguire la giustizia”.
Hagai El-Ad, direttore generale di B'Tselem ("Il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati") dal maggio 2014, facendo riferimento all’esame da parte di Israele delle azioni dei suoi soldati ha dichiarato: “Vogliono renderlo credibile. […] Le cose richiedono molto tempo, molte scartoffie. Ma la linea di fondo è l'impunità quasi totale per le Forze di Sicurezza”.
Il rapporto sottolinea che i gruppi per i diritti umani hanno regolarmente sollevato preoccupazioni riguardo “La lentezza di queste valutazioni totalmente riservate, che possono trascinarsi per mesi o anni, durante le quali i ricordi dei testimoni svaniscono, le prove possono scomparire o essere distrutte”.
Sembrerebbe, dunque, non essere un caso che il rapporto sia stato pubblicato due giorni prima del primo anniversario dell'uccisione della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh (51 anni), rimasta vittima di un proiettile israeliano che ha colpito la sua testa, mentre riferiva di un raid militare nella città occupata di Jenin, in Cisgiordania, l'11 maggio dello scorso anno.
Forensic Architecture, un gruppo di ricerca multidisciplinare, nel corso di un’indagine congiunta con il gruppo per i diritti dei palestinesi Al-Haq, nel settembre 2022, ha scoperto che le prove confutavano la versione di Israele secondo cui l'uccisione di Abu Akleh sarebbe stato “un errore”.
L'inchiesta si è basata su alcuni studi che hanno esaminato l'angolo di tiro del cecchino israeliano, giungendo alla chiara conclusione che i giornalisti si trovavano proprio in quel punto.
Le ricerche hanno anche definitivamente escluso la possibilità di scontri tra Forze israeliane e palestinesi che, in quel momento, avrebbero potuto causare un fuoco incrociato.
Secondo l'inchiesta, il cecchino israeliano avrebbe sparato per un tempo di circa due minuti, prendendo di mira in particolare chi, in quel momento, cercava di soccorrere Abu Akleh.
La famiglia della giornalista ha formalmente presentato una denuncia ufficiale alla Corte Penale Internazionale (ICC), chiedendo giustizia per la tragedia.
Israele, dal canto suo, ha dichiarato l’esistenza di buona possibilità che Abu Akleh fosse stata “accidentalmente colpita” dal fuoco dell'Esercito israeliano, ma ha anche riferito che, a tal proposito, non avrebbe avviato alcuna indagine penale.